Quando avevo quindici anni avevano aperto, in via Lagrange a Torino, un big burger.
Mi pare si chiamasse proprio così.
Questo big burger era bello perché era brutto, era un cunicolo tutto giallo illuminato al neon, e non c’erano i tavoli.
Era brutto perché c’era da sedersi solo lungo dei banconi, con gli sgabelli girevoli. Perciò era bello.
Era la prima cosa brutta che vedevamo dal vero, perché tutte le altre stavano in America.
La prima cosa davvero brutta, tutta gialla con la luce brutta e la musica a palla che non ci si poteva nemmeno parlare, ci attraeva come mosche sulla merda.
C’erano tanti altri posti dove potersi incontrare tutti insieme, ma solo il big burger era schifoso abbastanza.
In questo big burger io ci andavo poche volte, però quando ci andavo prendevo il burger con le patatine e la maionese nel sacchettino. Era bello mangiare le patatine in quello squallore che puzzava di olio fritto e plastica nuova.
Era quasi come essere in un film. Abbastanza brutto.
Nei film succedevano cose nei posti brutti dell’America e a noi piacevano e volevamo essere come loro, la gente si baciava e cominciavano storie d’amore in mezzo ai milk shake.
Io ci andavo perché anch’io volevo qualcosa come in un film e i baci con la lingua. Stavo lì con le mie amiche e le patatine ad aspettare che succedesse qualcosa.
Ma il mio amore della quinta ginnasio, lui non veniva mai lo stesso giorno che ci andavo io, lì. Perché aveva gli amici.
Così tutto consisteva per me nel mangiare il burger e le patatine con la maionese spremuta dal sacchettino, e bere la cocacola e parlare di lui che non c’era.
Sentirmi urlare a voce alta, per sovrastare la musica: Lascialo stare, lascialo perdere, non capisce niente e non ti merita.
Poi con le amiche si parlava dei loro altri che non c’erano che avrebbero dovuto esserci, che forse sarebbero arrivati o forse no.
C’era molta tensione erotica tra quelle patatine.
Quello era il futuro che arrivava. Il futuro giallo.