L’era della luna in gabbia.
[Avvertenza. questo più che un pezzettino è un pezzettone].
Molti anni fa me ne stavo in una stanza a preparare uno spettacolo e non facevo niente.
Mettevo della musica e facevo il seguente lavoro: aspettavo.
Spesso, nell’attesa, succedeva che mi addormentassi. Avevo delle parole nella testa ma non sapevo come farle uscire da lì. Erano come rintanate e non sembravano intenzionate a venirsene fuori solo perché lo volevo io.
Ho passato molti giorni, forse mesi, ad aspettare in quella piccola stanza. Mettevo musica e aspettavo e dormivo.
In quella stanza nessuno mi disturbava. Fuori credo pensassero che respirassi o forse che meditassi profondamente. Non so. La verità è che dormivo. Mi addormentavo nell’attesa.
Ero disperata e non sapevo cosa fare. La sola cosa possibile per me in quei giorni era starmene in quella stanza ad aspettare senza cercare di fare altri tentativi.
Poi un giorno sono finiti i soldi.
La stanza era sempre a mia disposizione, ma il tempo era scaduto.
Ho dovuto rinunciare ad aspettare. Sono andata a lavorare.
Ho lavorato in un cantiere di restauro, era la prima volta, faceva freddo, mettevo delle camice a quadri con sotto quelle canottiere da vecchi, di lana, e qualche volta anche i calzettoni lunghi, sempre di lana, con sopra un paio di pantaloni pesanti.
Lavoravo col bisturi legato ad un polso, se mi fosse caduto non avrebbe ferito nessuno al piano di sotto. Stavo attenta a quello che facevo perché tutto aveva delle conseguenze
Se andavi a bere un caffè cinque minuti, dovevi segnarlo su un foglietto e quei cinque minuti erano cinque minuti segnati.
Non avrei mai creduto che cinque minuti potessero essere davvero cinque minuti.
Finito questo lavoro di restauro mi hanno pagata, non molto, ma a sufficienza perché potessi tornarmene nella mia stanza ad aspettare.
La mia stanza era sempre a mia disposizione, ma io non sapevo da dove ripartire.
Non avevo idee e le parole restavano sempre chiuse da qualche parte nella testa e non uscivano.
Un giorno mi sono vestita come se fossi un’altra persona.
Ho comprato un vestito verde, di raso. Ho portato nella stanza alcune cose.
Ho disegnato e fatto fotografie ai miei disegni.
Poi ho cominciato a raccontare di quell’attesa.
Qualche settimana dopo è arrivato un uomo, che mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa. Non sapevo cosa dirgli ma mi dispiaceva dirgli che non mi serviva niente, anche se in effetti non mi serviva niente. Gli ho chiesto se poteva trovare il modo di far entrare la luna lì dentro, in quella stanza.
Lui ha usato uno specchio. Di lavoro, quell’uomo, faceva quello che trovava quello che gli altri cercavano.
Siamo rimasti a lungo insieme nel tempo della creazione. Io camminavo, parlavo dentro un appendiabiti, a volte mi sedevo o non facevo niente e lui guardava, finché non era l’ora di tornare a casa.
Alla fine la porta si è aperta. Sono entrate delle persone, per guardare quello che avevo trovato.
Quando tutto il pubblico era entrato cominciavo a smaltarmi le unghie, e ogni volta, facendolo, dicevo le stesse due cose: Questo non è uno spettacolo. Questo è uno spettacolo.
Quello era il mio spettacolo. Mi vestivo, mi smaltavo le unghie, mi sedevo a terra e scartavo un regalo, accendevo le candeline di una torta, mi mettevo delle scarpe verdi col tacco altissimo, ascoltavo una canzone russa e leggevo una fiaba. Poi raccontavo una storia d’amore che non aveva senso, poi alzavo le spalle e uscivo dalla stanza.
Quando uscivo ero all’aperto, non dietro le quinte.
Aprivo le porte pesanti di sicurezza ed uscivo e c’era il vento e c’era anche la luna vera, non quella intrappolata nello specchio.
Non ero sicura di quello che stavo facendo. Non capivo se quello che succedeva fosse legale o meno.
Forse nessuno avrebbe dovuto guardarlo.
Non era uno spettacolo, era una ferita aperta dentro uno spettacolo dove lo spettacolo stava dentro quella ferita.
Gente invitata a guardare dentro una ferita. Niente di sensazionale. C’erano le mie unghie smaltate, c’era la luna intrappolata in uno specchio.
Tutto questo è successo molti anni fa.
Non mi è mai più capitato di andare in scena così nuda, così defraudata di reti, con una parrucca bionda in testa.
L’uomo della luna, un giorno mi ha portata in montagna a conoscere sua nonna. Sua nonna era una materassaia, mi pare, e al tempo aveva novant’anni.
Viveva da sola. Aveva sempre vissuto da sola. Non si è scomposta quando siamo arrivati, era una donna che non sembrava essere mai scesa dalla montagna.
Abbiamo mangiato del formaggio e siamo andati a dormire. Le coperte erano umide e gelate.
Il giorno dopo, quando siamo tornati in città mi avevano rubato la macchina. Non era stato molto difficile perché avevo lasciato le chiavi nel nottolino.
Ogni automobile segna un’era. Quella era l’era della luna in gabbia.